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Sono convinto che entro un decennio assisteremo ad uno sconvolgimento del panorama IT e nello specifico dello sviluppo software.

Quando ho fondato Codexon nel 2013, a 23 anni, mi sono buttato in un’impresa che con la ragionevolezza di oggi molto probabilmente non avrei affrontato.

Non solo era la mia prima esperienza imprenditoriale ma era anche un tuffo in un settore verso cui potevo nutrire solo tanta passione ma di cui non conoscevo neanche lontanamente le dinamiche e le criticità.

Devo dire che le ho scoperte man mano, strada facendo, spesso e volentieri a mie spese e mi sono reso conto che la fortuna di tante software house nostrane è tutta nella capacità di riuscire a cavalcare, ancora, quell’onda di una digital transformation ante litteram che in Italia è partita orientativamente a cavallo tra la fine degli anni 90 e i primissimi anni 2000.

Questo è vero soprattutto per quelle software house (la maggior parte) che si rivolgono ad un target di micro e piccole imprese in cui la componente consulenziale è quasi nulla.

La bomba di Internet, del Web, il sogno di “automatizzare” i primi banali processi aziendali riducendo al minimo l’errore umano e di poter archiviare pile di faldoni in un PC o in un floppy disk. Da lì si è innescata quella miccia che ha coinvolto man mano anche gli imprenditori più conservatori che, per forza di cose, si sono dovuti adattare al “nuovo che avanza”.

Da quegli anni ne sono successe di cose, i pionieri dell’informatica hanno avviato e governato un processo di innovazione mondiale che è durato praticamente vent’anni. Bill Gates ha veramente portato un PC su ogni scrivania, Steve Jobs è riuscito a trovare l’equilibrio tra i tecnicismi e l’eleganza, semplicità, Page e Brin hanno portato la conoscenza a portata di click e oggi, diremmo, di “tap”. Per quel che ci riguarda più da vicino, il grande Adriano Olivetti ha compiuto in Italia un’opera straordinaria con i primi notebook e creando il concept di uno store dedicato “Olivetti” anticipando quelli che sarebbero stati gli “Apple Store”, quando Jobs non era ancora nato.

L’invenzione di tutto ciò ha creato nuovi mercati, ha creato settori interi inesplorati e da conquistare completamente. La necessità era “riconvertire” il quotidiano in chiave tecnologica, iniziando dalle aziende, passando per gli organismi statali e finendo con l’entrare davvero nella vita privata ed ordinaria delle persone.

Creato l’hardware serviva il software. C’era e c’è stato tanto da fare, c’era spazio per tutti e per tutto.

Chiunque abbia avuto il coraggio di cimentarsi in schede perforate, codici e algoritmi si è ritagliato il suo piccolo o grande spazio di crescita, senza che fosse necessaria una grossa inventiva.

Innovare significava prendere un aspetto pratico della vita reale e crearne l’equivalente tecnologico.

Esistevano già delle software house “mono progetto” o comunque estremamente verticalizzate che hanno affrontato gli anni d’oro dell’innovazione informatica e tecnologica in genere in Italia.

Con gli anni però i mercati che erano nuovi si sono saturati.

Non è stato più sufficiente sviluppare un gestionale per PMI, perché ne esistevano già a migliaia.

Non è stato più sufficiente sviluppare il software per le prenotazioni ai tavoli del ristorante, anche lì ce n’erano a migliaia.

Non è bastato più sviluppare l’ennesimo software di messaggistica o l’ennesimo CRM.

I mercati si sono saturati ed è successo che i “grandi” si sono presi tutto.

In Italia Team System è un colosso dei gestionali per aziende, grazie a prodotti eccellenti come Danea, Fattureincloud che si rivolgono egregiamente al target delle piccole e micro imprese.

Google ha spazzato via tutti i suoi concorrenti (chi si ricorda di Lycos, Altavista, Yahoo?) e per continuare a crescere sta occupando settori adiacenti con prodotti come GMail o Google Chrome che hanno conquistato il cuore e la mente di milioni di persone in tutto il mondo.

Le aziende hanno oramai completato un processo di innovazione che vede indietro solamente i più “ostinati” conservatori. Possiamo dire lo stesso degli organismi statali ai vari livelli che oramai sono ampiamente instradati verso una pressoché totale digitalizzazione (pensiamo alla carta d’identità digitale e alla fattura elettronica).

La stessa vita privata e il quotidiano delle persone hanno oramai subito mutamenti così importanti sotto il punto di vista tecnologico da spingerci a guardare ai prossimi decenni con curiosità e attesa prefigurando quali potranno essere le implicazioni di tante piccole ma incisive abitudini che abbiamo oramai acquisito. Penso all’interconnessione tra persone portata all’estremo dai social, alle auto a guida autonoma e, perché no, alla potenza di calcolo che portiamo inconsapevolmente in tasca ogni giorno.

Quasi all’improvviso non c’è stato più spazio per innovatori temerari. I colossi hanno abituato il pubblico a standard qualitativi e tecnologici estremamente alti, difficilmente raggiungibili da chi ci mette solo tanta passione e tanto cuore.

Soprattutto, si è iniziata ad avere l’esigenza di rendere le soluzioni tecnologiche interconnesse tra loro e così “il programmatore” ha iniziato a dover operare in un contesto di continua cooperazione, confronto, crescita e miglioramento con le altre realtà tecnologiche dello stesso settore. Spesso anche valicando i confini nazionali dovendo interagire con professionisti americani, inglesi.

Le aziende, i governi e le vite quotidiane delle persone sono state rivoltate come calzini. Di fatto non c’è più niente che sia rimasto fuori dalla rivoluzione tecnologica.

Qual è il posto delle moderne software house?

A cosa serve una software house oggi, quando abbiamo già digitalizzato tutto il digitalizzabile e i colossi stanno facendo ogni giorno passi da gigante nella ricerca e sviluppo, proponendo soluzioni all’avanguardia irreplicabili da realtà medio-piccole?

Io constato che l’innovazione in ambito software si sta spostando dalle soluzioni di massa alle specificità di ognuno.

Questa è una traiettoria di cambiamento epocale, resa attuabile soprattutto dal fatto che la curva d’apprendimento di tanti linguaggi di programmazione è nettamente più abbordabile. I programmatori non sono più “gli ingegneri” che studiavano all’università e venivano assunti in una multinazionale.

I programmatori di oggi sono i bambini che frequentano le scuole medie in cui esistono già corsi di programmazione, paralleli a quelli ordinari. I programmatori di oggi sono anche i piccolissimi e piccoli imprenditori che si adoperano in autonomia per risolvere un certo problema logico cercando la formula di una macro su Google oppure buttando giù due righe di HTML e Javascript.

Oggi chiunque è un programmatore e ancora non ce ne stiamo accorgendo.

Fino all’altro ieri, per i professionisti dello sviluppo software la parola d’ordine è stata “fare”, oggi non basta più fare. Bisogna sapere.

Il vero valore aggiunto si è spostato dal “software” in quanto tale alla capacità che le aziende e le persone hanno di comprenderne la logica, padroneggiarne l’evoluzione e quindi adattarlo in qualche misura ai mutamenti del tempo.

Che spazio può avere una software house orientata al “fare” se chi dovrebbe commissionare il da farsi è egli stesso in grado di provvedere in autonomia oppure se può scegliere soluzioni alternative altamente più performanti e diffuse?

Sono convinto che il posto delle software house del futuro sia quello di custodi del sapere “come sviluppare”, delle migliori best practice, di quell’esperienza orizzontale che permette ad un programmatore di avere una visione d’insieme che un singolo non potrà mai raggiungere.

Il compito delle software house del futuro deve essere quello di mettere a disposizione conoscenza e tecnologia. 20 anni fa i pionieri dell’informatica hanno guidato le masse verso la tecnologia, oggi il compito delle software house deve essere quello di guidare i singoli verso la realizzazione dei loro progetti dal punto di vista tecnologico.

Le implicazioni di questa mia personale conclusione sono profondissime.

Penso alla rivoluzione nel modello di business delle “nuove” software house e penso quindi alla figura del “nuovo” programmatore di una software house a cui non saranno richieste più solo competenze tecniche ma anche doti comunicative, capacità di organizzare e trasferire informazioni anche verso interlocutori “non tecnici”.

La software house del futuro dovrà concentrarsi più di oggi sull’essere trasparente, eterogenea e altamente orientata a fornire servizi Knowledge Intensive.